venerdì 12 aprile 2013

Sichuan: voyeurismo al funerale tibetano

pubblicato su Giornalettismo

Dopo aver seguito la principale direttrice turistica dello Yunnan e visitato una Cina completamente sanificata e ri-costruita per lo shopping, decido di mollare il circuito, staccarmi dalle rassicuranti rotte del turismo di massa e muovermi attraverso territori meno contaminati dai flussi.
Il mio viaggio verso Litang, un paesone ad oltre 4.000 metri di altitudine tra le montagne del Sichuan, è segnalato e descritto sulla bibbia del viaggiatore Occidentale, la Lonely Planet, la guida più diffusa sui tavolini degli Hostelling International del globo. La LP, utile per viaggiare in posti in cui non si conosce la lingua e piacevole da leggere durante gli spostamenti, ha il potere funesto di corrompere un posto, di alterarne l’equilibrio, di spezzarne l’incanto. Basta che consigli un luogo per modificarne la natura. Se c’è un ameno ristorantino frequentato solo da da autoctoni, una recensione positiva della sopraddetta sarà in grado di direzionare fiumane di turisti occidentali assetati di esperienze autentiche che tosto diventeranno artificiali perché il posto cercherà di adeguarsi agli standard dei nuovi arrivati; verrà corrotto da questa presenza cancerogena, ma lo farà con piacere, perché arriveranno più soldi, aumenteranno i coperti e verrà salato il costo dei pasti. Eppure i proprietari di un esercizio commerciale cinese non diranno mai “Cosa siamo diventati?!” o “Abbiamo venduto l’anima al diavolo!” perché saranno troppo impegnati a contare i quai, come chiamano qua i soldi. Il potere della LP in posti come la Cina è immenso. Ostelli e guesthouse si adeguano e organizzano tour mirati nei luoghi consigliati mentre gli altri vengono completamente dimenticati; se un museo non viene indicato dalla guida non vedrà mai l’ombra di un viaggiatore occidentale. La maggior parte dei viaggiatori smette di pensare, di chiedere; esegue le direttive della LP andando a vedere ciò che viene suggerito, fa una tacca sulla propria guida e poi parte verso nuove avventure.

Intenzionato a rendermi la vita un po’ più difficile abbandono Shangri-la in direzione Xiangcheng, nel montuoso Sichuan, una regione capace di ridimensionare il senso della parola “piccante”, relativamente al cibo. Il viaggio in autobus si protrae per 8 ore, nonostante il numero esiguo di chilometri, a causa delle strade sterrate e dei continui intoppi che impediscono di andare ad una velocità più che cicloturistica. Col rumoroso dinosauro di lamiera si valicano passi a 5.000 metri d’altezza, eppure non sembra di essere in quota visti gli immensi altipiani su cui pascolano placidi yak, indifferenti allo scorrere del tempo e al passaggio della corriera. A Xiangcheng, una cittadina a maggioranza tibetana, devo passare la notte in una pensioncina di cui sono il solo avventore. Per sgranchirmi le gambe annichilite dal lungo viaggio in pullman mi incammino sull’erta via di un tempio tibetano che da un colle domina la città. Visto un tempio visti tutti, ma qua non c’è poi tanto da fare. A Xiangcheng buona parte dei giovani maschi  sono monaci che vanno a zonzo per le strade con le motociclette e mi dicono “hello”, l’unica parola in inglese che conoscono. Dopo un po’ ne ho le balle piene di salutare tutti!

Al termine di una salita di qualche chilometro in uno scenario di montagne brulle raggiungo il tempio dove vengo accolto da due monaci, tra cui uno spilungone di due metri che mi fa cenno di seguirli nella loro passeggiata circolare, come se stesse aspettandomi. Qua i due cercano in tutti i modi di comunicare, anche scrivendo per terra con un sasso. Purtroppo il loro inglese è pari al mio cinese: zero. Dopo frustranti tentativi qualcosa riescono a farmi capire dicendo “Obama” e unendo due dita in segno di amicizia. Quando invece accennano a Hu Jintao, il presidente cinese, fanno segno di distruzione morte indicando delle macerie. Torno in albergo senza pensarci più di tanto. Ho altri problemi per la testa tipo procurarmi il biglietto dell’autobus per Litang.

Il giorno successivo trascorro altre 9 ore di corriera tra montagne, saliscendi, altipiani, praterie e rari paesini dove ci si ferma per mangiare una ciotola di riso e andare al gabinetto. Per buona parte del viaggio la colonna sonora è disco-music che tutti paiono gradire. Litang, dove nacque il decimo Dalai Lama, non è un incantevole paese incastonato tra i monti, bensì una moderna e caotica città, rumorosa e inquinata, sviluppata attorno alla via principale. Mi piazzo nel dormitorio dell’ostello più vicino alla stazione degli autobus. Un letto per una notte costa 15 yuan, l’equivalente di un euro e mezzo.

Parlando con la gentile proprietaria scopro che è possibile assistere al cosiddetto tiangzang, il funerale tibetano a cielo aperto in cui il corpo del defunto viene squartato e dato in pasto agli animali. Ne scrive in proposito anche Terzani ne “La porta proibita”; il grande giornalista che viaggiò in lungo e in largo l’Asia fu uno dei primi stranieri ad assistervi. Durante la Rivoluzione Culturale, com’è facile da immaginare, il rito venne proibito, ma fu praticato abusivamente. L’unica controindicazione è che non mi sa dire quanto tempo avrei dovuto aspettare. Per 3 giorni attendo, gesticolando con il figlio della proprietaria, un preadolescente accanito tabagista cresciuto col mito di Michael Jackson. Vagolo anche per la città e passeggio sui colli, che in realtà sono più elevati del Monte Rosa. Anche Litang è edificata con un format consolidato: è dominata da un tempio da cui si ha una visione globale della città. Finalmente, quando comincio ad impazientirmi, la signora dell’ostello mi porge l’agognato bigliettino da presentare ad un tassista. È indicato il luogo dove l’indomani mattina si sarebbe dovuto svolgere il rito funebre.

Poco dopo in albergo, però, mi aspetta una sorpresa. Un poliziotto vuole parlare con me. Mi comunica in un inglese discreto che per ragioni di sicurezza sarebbe meglio che abbandonassi Litang. Sicurezza? La mia naturalmente. Mi spiega che vista l’altitudine potrei avere problemi di salute a causa del difficoltoso acclimatamento. Sono costretto a promettergli che l’indomani me ne sarei andato di con un minibus serale.

Qua ci sarebbe da aprire una parentesi sui disordini, poco seguiti dalla stampa occidentale e completamente omessi da quella cinese di fine aprile del 2011 nella regione di Nagba, nel Sichuan, vicino al confine col Tibet, in cui migliaia di monaci erano stretti d’assedio dalla polizia cinese. Ricordo un articolo di propaganda del China Daily, l’acritica voce del padrone, in cui si ricordava quanto la Cina stesse facendo bene per il Tibet, con testimonianze di ragazzi tibetani che grazie all’aiuto dei cinesi erano riusciti a fuggire una vita di stenti e privazioni. In questo c’è sicuramente del vero, ma è una verità parziale che nasconde la violenza usata da Pechino per placare gli slanci autonomisti. A leggere i giornali locali pare che il rapporto tra Cina e Tibet non sia solo pacifico ma addirittura armonioso. Com’è facile da immaginare, durante gli scontri e le proteste, il turista Occidentale rompiscatole non è gradito.

La mattina successiva mi alzo di buon ora alla ricerca di un autista, che capisce subito perché voglio raggiungere quel posto. Penso che sia lo stesso obiettivo di molti turisti che trascorrono qualche giorno a Litang con la LP sotto il braccio. Arriviamo in largo anticipo attraversando un’enorme discarica a cielo aperto. Siamo a circa un quarto d’ora d’auto fuori dalla città. Ad attenderci uno scenario spettrale: enormi avvoltoi che aspettano. Per terra non è difficile individuare ossa umane e coltellacci.

Non c’è nessun problema se un Occidentale va ad osservare questo infierimento di un cadavere, certo è buonsenso non infastidire i tibetani con le foto. Io, oltre che un voyeur, mi sono sentito un avvoltoio. Il cadavere non solo viene gettato in pasto agli uccellacci ma anche agli spettatori, anche loro assetati di sangue, della cerimonia. Per fortuna, forse anche a causa della bassa stagione, non ero affiancato da stuoli di turisti ma ero solo. Dopo una lunga attesa al freddo e al gelo dei 4.000 metri giungono delle jeep. Scendono una decina di persone e con una flemma tibetana cominciano a preparare il terreno. Mentre un monaco benedice la terra, il tomdem, vale a dire il maestro di cerimonie, recita dei mantra. Mi vedono in disparte che li osservo, ma tutt’altro che irritati mi fanno un cenno di saluto, il tassista mi fa segno che possiamo avvicinarci. In effetti paiono gioviali, fumano e scattano foto agli avvoltoi mentre il monaco ed il tomdem sono assorti nel loro lavoro preparatorio. Poi dal bagagliaio tirano fuori il corpo del defunto, avvolto in un telo bianco. Viene steso a pancia in giù, nudo. Gli avvoltoi si avvicinano e i famigliari li tengono lontani con dei bastoni mentre il cerimoniere affila un coltello con un sasso. Poi il cerimoniere squarta il cadavere, apre il cranio e getta il cervello in pasto agli avvoltoi. Tutto il corpo viene aperto minuziosamente con il coltello. I famigliari con i bastoni hanno un bel da fare per tenere lontano gli uccellacci che non vedono l’ora di banchettare. Quando il cerimoniere termina lo squartamento e l’asportazione degli organi, si allontana e gli avvoltoi si avventano famelici; è un’orgia di uccelli che si sfamano di un cadavere. L’odore è insopportabile e fa venire il voltastomaco; in un quarto d’ora non rimane più nulla. L’atto di generosità nei confronti della natura si conclude. È per ragioni spirituali e pratiche che si compie il tiangzang. Con la morte lo spirito si allontana dal corpo che non ha più alcuna utilità nel mondo se non quella, ultima, di sfamare le bestie.

La sera mi viene voglia di restare a Litang solo per non ubbidire al poliziotto, ma la signora dell’ostello mi ricorda da dove partono i mini-bus per la tappa successiva. Probabilmente là mi stanno aspettando.

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