pubblicato su Giornalettismo
Dopo aver seguito la principale direttrice turistica dello Yunnan e visitato una Cina completamente sanificata e ri-costruita per lo shopping, decido di mollare il circuito, staccarmi dalle rassicuranti rotte del turismo di massa e muovermi attraverso territori meno contaminati dai flussi.
Il mio viaggio verso Litang,
un paesone ad oltre 4.000 metri di altitudine tra le montagne del
Sichuan, è segnalato e descritto sulla bibbia del viaggiatore
Occidentale, la Lonely Planet, la guida più diffusa sui tavolini degli
Hostelling International del globo. La LP, utile per viaggiare in posti
in cui non si conosce la lingua e piacevole da leggere durante gli
spostamenti, ha il potere funesto di corrompere un posto, di alterarne
l’equilibrio, di spezzarne l’incanto. Basta che consigli un luogo per
modificarne la natura. Se c’è un ameno ristorantino frequentato solo da
da autoctoni, una recensione positiva della sopraddetta sarà in grado di
direzionare fiumane di turisti occidentali assetati di esperienze autentiche
che tosto diventeranno artificiali perché il posto cercherà di
adeguarsi agli standard dei nuovi arrivati; verrà corrotto da questa
presenza cancerogena, ma lo farà con piacere, perché arriveranno più
soldi, aumenteranno i coperti e verrà salato il costo dei pasti. Eppure i
proprietari di un esercizio commerciale cinese non diranno mai “Cosa
siamo diventati?!” o “Abbiamo venduto l’anima al diavolo!” perché
saranno troppo impegnati a contare i quai, come chiamano qua i
soldi. Il potere della LP in posti come la Cina è immenso. Ostelli e
guesthouse si adeguano e organizzano tour mirati nei luoghi consigliati
mentre gli altri vengono completamente dimenticati; se un museo non
viene indicato dalla guida non vedrà mai l’ombra di un viaggiatore
occidentale. La maggior parte dei viaggiatori smette di pensare, di
chiedere; esegue le direttive della LP andando a vedere ciò che viene
suggerito, fa una tacca sulla propria guida e poi parte verso nuove
avventure.
Intenzionato a rendermi la
vita un po’ più difficile abbandono Shangri-la in direzione Xiangcheng,
nel montuoso Sichuan, una regione capace di ridimensionare il senso
della parola “piccante”, relativamente al cibo. Il viaggio in autobus si
protrae per 8 ore, nonostante il numero esiguo di chilometri, a causa
delle strade sterrate e dei continui intoppi che impediscono di andare
ad una velocità più che cicloturistica. Col rumoroso dinosauro di lamiera
si valicano passi a 5.000 metri d’altezza, eppure non sembra di essere
in quota visti gli immensi altipiani su cui pascolano placidi yak,
indifferenti allo scorrere del tempo e al passaggio della corriera. A
Xiangcheng, una cittadina a maggioranza tibetana, devo passare la notte
in una pensioncina di cui sono il solo avventore. Per sgranchirmi le
gambe annichilite dal lungo viaggio in pullman mi incammino sull’erta
via di un tempio tibetano che da un colle domina la città. Visto un
tempio visti tutti, ma qua non c’è poi tanto da fare. A Xiangcheng buona
parte dei giovani maschi sono monaci che vanno a zonzo per le strade
con le motociclette e mi dicono “hello”, l’unica parola in inglese che
conoscono. Dopo un po’ ne ho le balle piene di salutare tutti!
Al termine di una
salita di qualche chilometro in uno scenario di montagne brulle
raggiungo il tempio dove vengo accolto da due monaci, tra cui uno
spilungone di due metri che mi fa cenno di seguirli nella loro
passeggiata circolare, come se stesse aspettandomi. Qua i due cercano in
tutti i modi di comunicare, anche scrivendo per terra con un sasso.
Purtroppo il loro inglese è pari al mio cinese: zero. Dopo frustranti
tentativi qualcosa riescono a farmi capire dicendo “Obama” e unendo due
dita in segno di amicizia. Quando invece accennano a Hu Jintao, il
presidente cinese, fanno segno di distruzione morte indicando delle
macerie. Torno in albergo senza pensarci più di tanto. Ho altri problemi
per la testa tipo procurarmi il biglietto dell’autobus per Litang.
Il giorno successivo trascorro altre 9 ore
di corriera tra montagne, saliscendi, altipiani, praterie e rari paesini
dove ci si ferma per mangiare una ciotola di riso e andare al
gabinetto. Per buona parte del viaggio la colonna sonora è disco-music
che tutti paiono gradire. Litang, dove nacque il decimo Dalai Lama, non è
un incantevole paese incastonato tra i monti, bensì una moderna e
caotica città, rumorosa e inquinata, sviluppata attorno alla via
principale. Mi piazzo nel dormitorio dell’ostello più vicino alla
stazione degli autobus. Un letto per una notte costa 15 yuan,
l’equivalente di un euro e mezzo.
Parlando con la gentile proprietaria scopro che è possibile assistere al cosiddetto tiangzang,
il funerale tibetano a cielo aperto in cui il corpo del defunto viene
squartato e dato in pasto agli animali. Ne scrive in proposito anche
Terzani ne “La porta proibita”; il grande giornalista che viaggiò in
lungo e in largo l’Asia fu uno dei primi stranieri ad assistervi.
Durante la Rivoluzione Culturale, com’è facile da immaginare, il rito
venne proibito, ma fu praticato abusivamente. L’unica
controindicazione è che non mi sa dire quanto tempo avrei dovuto
aspettare. Per 3 giorni attendo, gesticolando con il figlio della
proprietaria, un preadolescente accanito tabagista cresciuto col mito di
Michael Jackson. Vagolo anche per la città e passeggio sui colli, che
in realtà sono più elevati del Monte Rosa. Anche Litang è edificata con
un format consolidato: è dominata da un tempio da cui si ha una visione
globale della città. Finalmente, quando comincio ad impazientirmi, la
signora dell’ostello mi porge l’agognato bigliettino da presentare ad un
tassista. È indicato il luogo dove l’indomani mattina si sarebbe dovuto
svolgere il rito funebre.
Poco dopo in
albergo, però, mi aspetta una sorpresa. Un poliziotto vuole parlare con
me. Mi comunica in un inglese discreto che per ragioni di sicurezza
sarebbe meglio che abbandonassi Litang. Sicurezza? La mia naturalmente.
Mi spiega che vista l’altitudine potrei avere problemi di salute a causa
del difficoltoso acclimatamento. Sono costretto a promettergli che
l’indomani me ne sarei andato di con un minibus serale.
Qua ci sarebbe da
aprire una parentesi sui disordini, poco seguiti dalla stampa
occidentale e completamente omessi da quella cinese di fine aprile del
2011 nella regione di Nagba, nel Sichuan, vicino al confine col Tibet,
in cui migliaia di monaci erano stretti d’assedio dalla polizia cinese.
Ricordo un articolo di propaganda del China Daily, l’acritica voce del
padrone, in cui si ricordava quanto la Cina stesse facendo bene per il
Tibet, con testimonianze di ragazzi tibetani che grazie all’aiuto dei
cinesi erano riusciti a fuggire una vita di stenti e privazioni. In
questo c’è sicuramente del vero, ma è una verità parziale che nasconde
la violenza usata da Pechino per placare gli slanci autonomisti.
A leggere i giornali locali pare che il rapporto tra Cina e Tibet non
sia solo pacifico ma addirittura armonioso. Com’è facile da immaginare,
durante gli scontri e le proteste, il turista Occidentale rompiscatole
non è gradito.
La mattina successiva mi alzo di
buon ora alla ricerca di un autista, che capisce subito perché voglio
raggiungere quel posto. Penso che sia lo stesso obiettivo di molti
turisti che trascorrono qualche giorno a Litang con la LP sotto il
braccio. Arriviamo in largo anticipo attraversando un’enorme discarica a
cielo aperto. Siamo a circa un quarto d’ora d’auto fuori dalla città.
Ad attenderci uno scenario spettrale: enormi avvoltoi che aspettano. Per
terra non è difficile individuare ossa umane e coltellacci.
Non c’è nessun problema se un Occidentale
va ad osservare questo infierimento di un cadavere, certo è buonsenso
non infastidire i tibetani con le foto. Io, oltre che un voyeur, mi sono
sentito un avvoltoio. Il cadavere non solo viene gettato in pasto agli
uccellacci ma anche agli spettatori, anche loro assetati di sangue,
della cerimonia. Per fortuna, forse anche a causa della bassa stagione,
non ero affiancato da stuoli di turisti ma ero solo. Dopo una lunga
attesa al freddo e al gelo dei 4.000 metri giungono delle jeep. Scendono
una decina di persone e con una flemma tibetana cominciano a preparare
il terreno. Mentre un monaco benedice la terra, il tomdem, vale
a dire il maestro di cerimonie, recita dei mantra. Mi vedono in
disparte che li osservo, ma tutt’altro che irritati mi fanno un cenno di
saluto, il tassista mi fa segno che possiamo avvicinarci. In effetti
paiono gioviali, fumano e scattano foto agli avvoltoi mentre il monaco
ed il tomdem sono assorti nel loro lavoro preparatorio. Poi dal
bagagliaio tirano fuori il corpo del defunto, avvolto in un telo bianco.
Viene steso a pancia in giù, nudo. Gli avvoltoi si avvicinano e i
famigliari li tengono lontani con dei bastoni mentre il cerimoniere
affila un coltello con un sasso. Poi il cerimoniere squarta il cadavere,
apre il cranio e getta il cervello in pasto agli avvoltoi. Tutto il
corpo viene aperto minuziosamente con il coltello. I famigliari con i
bastoni hanno un bel da fare per tenere lontano gli uccellacci che non
vedono l’ora di banchettare. Quando il cerimoniere termina lo
squartamento e l’asportazione degli organi, si allontana e gli avvoltoi
si avventano famelici; è un’orgia di uccelli che si sfamano di un
cadavere. L’odore è insopportabile e fa venire il voltastomaco; in un
quarto d’ora non rimane più nulla. L’atto di generosità nei confronti
della natura si conclude. È per ragioni spirituali e pratiche che si
compie il tiangzang. Con la morte lo spirito si allontana dal corpo che
non ha più alcuna utilità nel mondo se non quella, ultima, di sfamare le
bestie.
La sera mi viene voglia di
restare a Litang solo per non ubbidire al poliziotto, ma la signora
dell’ostello mi ricorda da dove partono i mini-bus per la tappa
successiva. Probabilmente là mi stanno aspettando.
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